CULTURA E TRADIZIONI POPOLARI
La magia di paladini, briganti e santi nell'opera dei pupi
siciliani
Bruno Grimaldi
Mi sono tonte volte chiesto perché "l'Opera dei pupi" viene, dagli storici e dai critici dello spettacolo teatrale, considerato il teatro
tradizionale di marionette popolari siciliane, ed ho colto immediatamente la
differenza tra la marionetta siciliana, detta Pupo, e le altre marionette
popolari, che vantano tradizioni in molti stati europei ed in alcune regioni
d'Italia.
La marionetta, di cui il "pupo" è un particolare tipo, vanta remote origini ed ha molti punti in comune con il mimo, la cui nascita si fa risalire ad epoche molto lontane da noi, in terra di Sicilia.
Nello spettacolo di mimo è l'attore stesso che si muove teso a rappresentare con i movimenti del suo corpo e con l'atteggiamento del suo viso situazioni e fatti, sentimenti e passioni, in modo che gli spettatori possano
percepire, attraverso la descrizione imitativa, il messaggio che il mimo lancia,
mentre nell'opera dei pupi è il puparo che dà vita, che fa parlare il pupo al
quale è destinato il ruolo di buono o di cattivo, di violento o di debole nella
rappresentazione, ed al quale il puparo spesso si sostituisce per esprimere i
suoi sentimenti, il suo stato d'animo, le sue valutazioni.
Il pupo diventa pupazzo cioè personaggio senza vita al termine della rappresentazione, per ritornare a vivere il giorno dopo nelle mani del puparo.
I pupi protagonisti di questo teatro, che ha continuato a vivere fino a pochi anni addietro specie a Palermo ed a Catania, sono guerrieri dotati di armature in metallo scomponibili e di spade sfoderabili. I loro movimenti, i passi e la tecnica di scherma, erano legati ad una rigorosa tradizione, non osservando i
quali, il puparo andava incontro a forti critiche da parte degli spettatori. I
pupi erano costruiti con notevole solidità e resistenza ed erano dotati di
alcune particolarità tecniche, come l'asta di ferro usata al posto del filo per
muovere il braccio destro impegnato nei duelli.
Il repertorio comprendeva rappresentazioni cicliche a puntate, ispirate alle storie dei paladini di Francia, che derivavano dalla letteratura epico-cavalleresca, e particolarmente dal ciclo carolingio, della vita e delle imprese di Carlo Magno, ma comprendeva anche vite di banditi, di santi, avvenimenti storici e trame derivate da noti lavori teatrali.
Comunque la fonte cui attingeva il repertorio dei pupi siciliani era quella stessa cui si rifaceva il repertorio dei cantastorie e cioè la "Storia dei paladini" di Giusto Lodico, le dispense popolari pubblicate a Palermo, variamente ispirate alla storia dei Paladini di Francia, altri cicli fantastico-storici ed addirittura l'Assedio di Troia.
Il cantastorie, che accompagna il proprio «cuntu» (racconto) con pantomime di duelli e battaglie eseguite da lui stesso, svolgeva la stessa tematica in un'unica rappresentazione, mentre il repertorio dell'opera dei pupi si svolgeva a puntate, come un romanzo a dispense in almeno cinque o sei mesi di recite consecutive serali.
Al termine di ogni spettacolo, il "pastore" (figura diversa dal puparo che è quello che costruisce il pupo e comunque lo muove) si sedeva in un lato del palcoscenico ed annunziava al pubblico «l'invito» cioè il riassunto della rappresentazione della serata seguente e terminava il suo dire con la rituale frase «onorateci e compatiteci».
Il pubblico che seguiva l'opera dei pupi nell'800 e nei primi 50 anni del '900 era il popolo "vascio" (basso) che sentiva specialmente il fascino delle guerre combattute dai guerrieri di Carlo Magno imperatore contro i mori ed i saraceni che avevano invaso la Spagna e minacciavano tutta l'Europa.
Ma tali vicende erano state già secoli prima cantate e decantate da poeti e menestrelli, da giullari e cantastorie per le classi ricche.
I pupanti dopo avere sventrato l'Ariosto che in ottave aveva raccontato le più stupefacenti avventure dei più famosi cavalieri della Corte di Carlo Magno detti "paladini" ed attinto a piene mani dalle pagine dell'"Orlando innamorato" del Boiardo e del "Morgante" del Pulci, sconfinarono nella scelta di altre imprese da narrare e cosi attinsero alla storia di Vittorio Emanuele, alle vicende di Giuseppe Garibaldi fino ad approdare nel campo religioso raccontando le vicende dei Beati Paoli, le storie di Santa Rosalia, di santa Rita, di santa
Genoveffa e quindi la vita di Gesù attraverso i suoi momenti esaltanti: la Natività e la Passione.
A questi spettacoli di atmosfera tragica, seguivano brevi farse in dialetto che riportavano serenità nelle coscienze e sorrisi sulle labbra, che diventavano risate sperticate quando già la patina di drammaticità che si era formata in fondo alle coscienze si era momentaneamente dissolta.
La platea, infatti, era costituita da un pubblico popolare che sentiva e partecipava emotivamente allo svolgersi di tali racconti cavallereschi, da cui restava talmente affascinato e colpito da intervenire in favore dell'uno o
dell'altro paladino più debole richiedendo a volte al puparo ed al parlatore
rappresaglie più violente nei confronti di un traditore; capitava spesso che
qualche scalmanato salisse sul palcoscenico e prendesse a morsi, a pugni ed
anche a coltellate il paladino odiato.
Alcune volte si verificavano accesi battibecchi tra il puparo ed il pubblico che metteva in dubbio iconicamente certe imprese di paladini che venivano ritenuti non meritevoli delle attenzioni del puparo, in due correnti di spettatori che si fronteggiavano e corrissavano, finendo in massa all'ospedale.
Ma avveniva anche che i pupari si eccitassero oltre misura per le imprese dei propri pupi-paladini, che essi stessi costruissero armature personali, e le indossavano per scendere in campo nel piccolo palcoscenico dei pupi, come fece il puparo Agostino Progeta di Licata.
I pupi siciliani sarebbero sbarcati da Napoli, dove marionette cavalleresche erano state portate la prima volta nel 1646 da artisti castigliani al seguito del viceré spagnolo.
Ma fu, secondo una tradizione romantica legata al risorgimento italiano, Giovanni Grasso, nel 1861, a portarli in Sicilia dopo un avventuroso viaggio in mare compiuto per sfuggire alla polizia Borbonica che mai tollerava il puparo Grasso, il quale non perdeva occasione, attraverso i suoi pupi, di lanciare invettive e strali velenosi contro lo strapotere borbonico; altri studiosi sostengono, invece, che i pupi sarebbero arrivati nell'isola portati dal
napoletano Gaetano Greco nel 1844.
Altre testimonianze, invece, ci fanno sapere che già nel 1837 a Catania vi era un teatrino gestito da Gaetano Crimi, uno, quindi dei più antichi pupari siciliani.
Questa forma di teatro popolare si rivolgeva al pubblico dei quartieri poveri delle città ed a quello dei paesi che gremivano i teatri che erano costretti ad esporre, quasi ogni sera, i cartelli del "tutto esaurito".
Gli spettatori definiti "patuti" erano quelli che commentavano l'azione prima e dopo la rappresentazione ed erano i più critici. Uno dei cicli più rappresentati era quello che riprendeva la vicenda di "Le gesta di Carlo Magno" che inizia dall'assedio di Troia ed è raccontata con intrecci colossali in cui prendono posto vicende storiche e mitologiche collaterali.
I personaggi più amati erano Rolando (Orlando) il campione della cristianità, che aveva gli occhi storti ed uno sguardo finissimo; Rinaldo per la sua generosa audacia, per la simpatia, per gli ostacoli che ogni volta gli si
presentavano e che lui superava. Ma l'applauso e la simpatia andava soprattutto
alla donna guerriera, che lottava ed amava alla stregua della donna meridionale
con amore ed odio, con sangue e passione, con rassegnato fatalismo: Angelica.
Esistono in Sicilia due distinte tradizioni dell'opera dei pupi, quella palermitana diffusa nella Sicilia occidentale, e quella catanese diffusa nella Sicilia orientale.
Esse differiscono per qualche aspetto della meccanica, della figurazione e per qualche soggetto particolare.
In Sicilia operavano varie opere dei pupi che seguivano gli indirizzi o della scuola palermitana o della scuola catanese. Il Pitré conta 25 teatrali stabili in tutta l'isola, più due o tre nomadi: due a Messina, tre a Catania, nove nella sola Palermo eppoi uno a Balestrate, Alcamo, Trapani, Marsala, Agrigento, Taormina, Caltanissetta, Termini e Trabia. Su tutti eccellevano a Palermo i pupari delle famiglie Greco e Canino, sempre in rivalità fra loro. In verità don Liberto Canino rimase sempre in pianta stabile a Palermo, mentre don Gaetano Greco, molte volte, per sbarcare il lunario, lasciava Palermo ed andava in giro per la Sicilia. Non bisogna dimenticare, però, altri pupari che operavano
nell'area palermitana e che sono Nino Pernice, Giacomo Cuticchio, Antonio
Mancuso. Nel 1960 Giuseppe Argento era il solo a mantenere aperto un teatro a
Palermo in corso Scinà con spettacoli quotidiani, ma con scarsi guadagni.
Negli ultimi anni alcuni figli di operanti hanno tentato di mettere su un proprio teatro con modesti risultati, incoraggiati da un ritorno del pubblico all'arte popolare in genere. I più antichi operanti catanesi sono stati Giovanni Crimi, in attivita dal 1837 al 1870 ed il uso rivale, Giovanni Grasso, nonno del famoso attore teatrale suo omonimo, anche egli esperto puparo che nel 1898 lasciò definitivamente i pupi per diventare unfamoso attore di prosa.
Non si possono, però non ricordare don Biagio Mirabella che nel 1921 apri il suo teatro a San Cristoforo ed i fratelli Napoli.
Verso il 1930 c'erano a Catania 18 teatri mentre nel 1949 se ne potevano contare
solo 6 ed oggi c'è un'unica opera che e quella dei fratelli Napoli. Infine bisogna dire che i pupari catanesi, avevano un regolare copione, ed i parlatori erano persone diversedai manovratori che azionavano i pupi da un palco più alto del palcoscenico con uno spazio per la manovra ben ristretto, mentre i pupari palermitani erano contemporaneamente parlatori e manovratori ed avevano a loro disposizione dei canovacci e quindidelle tracce di cui disponevano liberamente imitando anche le voci femminili. I pupi palermitani sono alti da 80 cm. a un metro e pesano circa 30 kg., hanno il ginocchio articolato possono sguainare la spada, mentre i pupi catanesi hanno il ginocchio rigido e se sono guerrieri hanno sempre o quasi la spada in mano e sono alti da 1 metro a 1,30 di altezza.
Nei fondali, nei sipari e nei cartelloni, infine, vengono rappresentate scene di lite cavalleresca con grande acume artistico e pittorico.